mercoledì 23 marzo 2011

RECENSIONE di Myriam Perdichizzi


Rosaria. Il suo male di vivere. La sua rinascita. La sua morte. E la musica di Mozart, sogno di armonia e di bellezza per un’esistenza fragile, protesa a risolvere le proprie dissonanze in canto. Questa l’esile fabula del breve e intenso racconto di Matteo Pugliares, per le edizioni Tabula fati.
La narrazione si articola in due linee autonome e complementari, che procedono lungo direttrici temporali opposte, si intrecciano come voci di una fuga e convergono solo alla fine.
Alla voce del narratore esterno, nitida e pacata, che delinea con pochi tratti essenziali le coordinate spazio-temporali della storia e, con misurati ed efficaci flashback, approfondisce la caratterizzazione dei personaggi e dilata il tempo del racconto, fanno da contrappunto i vibranti monologhi interiori di Rosaria, risposte della sua coscienza, lucidissima nonostante lo stato di coma irreversibile, ad altrettanti brani di Mozart, che l’autore indica puntualmente. I monologhi, non di rado, acquistano un respiro lirico, scandito da anafore che conferiscono al dettato un andamento quasi litanico, in un crescendo di intensità che approda quasi sempre alla formula che, in parte, fa da titolo al racconto: “Mozart era il mio preferito: amavo tutto di lui”. È una formula alla quale la mente di Rosaria sembra aggrapparsi quando sta per essere travolta dall’onda dei ricordi più tristi, è pausa, respiro, momentaneo sollievo; immaginiamo che Rosaria ne scandisca mentalmente le sillabe con lenta e dolente consapevolezza, quasi fosse un rito apotropaico: evocare la forza della bellezza contro il male. La voce di Rosaria, dai confini della coscienza, raggiunge il lettore e lo rapisce in una dimensione onirica. Ma il sogno di Rosaria, che affiora dal profondo per episodi legati da chiari nessi associativi, è la sua vita vissuta. Anch’essa, nel graduale emergere dall’intreccio delle due linee narrative, appare come una melodia, a tratti lieve, a tratti sincopata e dolente, che procede fra ingombranti assenze e delicate presenze. Le assenze degli adulti spalancano nell’anima di Rosaria voragini di angoscia: i genitori sono figure evanescenti e grottesche, incapaci di relazioni e di calore; padre Michele, il giovane prete, è un diligente funzionario del sacro, ma è avaro di sentimenti, incapace, per quieto vivere, di chinarsi su un cuore ferito; la scuola annoia e induce alla fuga. Ma la vita di Rosaria è anche costellata di presenze preziose: padre Alfio, il vecchio prete, buono e intelligente, che amava i poveri e che regalava le caramelle ai bambini; zia Lucia, la matta di famiglia, che vive di sobrietà e di bellezza e guida Rosaria verso i lidi sconosciuti dell’arte, le cui ricchezze continuano a nutrire il suo spirito anche quando il suo corpo rifiuta il cibo; Giulio, primo inconsapevole amore, creatura gentile, naturalmente orientata verso la verità; Fabio, fratello poco più grande di Rosaria, che le fa anche da padre e da madre, tenero e protettivo, complice ma capace di un amore intelligente; l’amica Anna, strana e luminosa creatura proveniente da un altrove non solo geografico; e infine Marcello, primo e ultimo vero amore. Ciò che accomuna questi personaggi è la capacità di stabilire con Rosaria contatti significativi e calorosi, tali da proiettare la sua vita verso il futuro. Ciascuno di essi le indica implicitamente un sentiero per accedere al segreto della vita, alla sua deliziosa pienezza. Padre Alfio, del cui sguardo paterno Rosaria ha un’implacabile nostalgia, con le sue caramelle alla frutta, col suo chinarsi all’altezza dei bambini e parlarne il linguaggio, le indica il sentiero dell’umiltà. Zia Lucia, che conosce per nome ciascuno dei suoi tanti gatti e trascorre le giornate fra l’armonia della natura e il sublime dell’arte, le indica la via dell’attenzione: uno sguardo penetrante e intelligente sulla realtà, che però può condurre un’anima fragile a smarrirsi nei propri labirinti interiori. E a Rosaria accade. Giulio, sedicenne timido e sensibile, che legge i Salmi, il Qoelet e Montale, le indica la via dell’inquieta ma fiduciosa ricerca di senso. Fabio, unico sostegno al suo male di vivere, unico sguardo affettuoso, unica carezza delicata, le indica, con le sue cure, il sentiero della pazienza e della tenerezza. Ed è significativo che, quando la forza della vita torna a pulsare nelle sue vene, uno dei primi gesti di Rosaria sia dare l’acqua ai gerani: entrare in contatto con la realtà, prendersi a sua volta cura di creature fragili e sofferenti con le quali sorridere un unico sorriso. Anna le indica la via dell’amicizia, che è dialogo, scambio, leggerezza, accettazione piena e priva di giudizio, dono reciproco della propria unicità. E poi Marcello, il cui amore non è causa, ma frutto della ritrovata gioia di vivere; Marcello, che ha più del doppio dei suoi anni, una cultura vasta e originale e varie e singolari esperienze di vita, le indica le vie della semplicità e della fiducia nel futuro.
Alla fine del racconto Rosaria è felice, i tasselli più preziosi della sua vita si ricompongono in un mosaico di bellezza: ha fatto pace con se stessa, sorride al mondo e il mondo le sorride. Possiamo immaginare che, adesso, ami tutto della propria storia, come di Mozart. Sarebbe pronta al futuro, se il disegno non fosse diverso. Il motivo della sua guarigione, però, rimane implicito. Nessun medico, nessuno psicologo, nessun adulto si è preso cura di lei: le sono stati di conforto solo i suoi libri, la sua musica, la compagnia di un gatto dal nome strano e l’affetto spontaneo di un fratello. E pare sia bastato. Inevitabile chiedersi cosa sia successo. Ragionevole ipotizzare che è successo quanto di più naturale potesse succedere: è stata la vita stessa a guarire Rosaria dal male di vivere, la vita in cui le stagioni del cuore si susseguono ciclicamente, come quelle dell’anno, in cui ogni inverno è promessa di una nuova primavera. E il primo germoglio del processo di rinascita di Rosaria si intravede già nella scena iniziale che, con la sua suggestiva plasticità, si pone come chiave di lettura dell’intero racconto: nella fredda e silenziosa concavità di una chiesa barocca, Rosaria piange davanti al Crocifisso, specchio e doppio del proprio corpo martoriato dall’anoressia; fissa la piaga del suo costato, cerca il suo sguardo agonizzante e lo interroga sul suo male di vivere. E lui sembra fissarla con tenerezza. Al mite calore di questo sguardo dolcissimo, il dolore di Rosaria s’infrange e inizia a dissolversi. È questa l’unica risposta possibile al male di vivere: la condivisione. Rosaria sa che solo pochi ne sono capaci, ma ha anche sperimentato che, in quell’uomo in croce, sofferente come lei, ogni dolore trova senso, accoglienza e sollievo. E questo le basta per rinascere. Alla fine del racconto, per una raffinata e simbolica scelta di regia narrativa, la scena si ripete. Questa volta il protagonista è Fabio, che soffre per la morte della sorella. E il lettore può esser certo che anche lui saprà cogliere nello sguardo sfinito del Crocifisso la stessa partecipe carezza, e rinascere.
Le due linee narrative convergono nel momento della morte di Rosaria, che si addormenta sorridente, sulle note di Mozart. “Mozart era il mio preferito: amavo tutto di lui”: è invocazione che accompagna il suo volo verso nuovi cieli, è struggente nostalgia della vita e dell’amore ritrovati, è antifona del canto nuovo di una creatura angelica, nel regno della luce.

Myriam Perdichizzi

Matteo Pugliares
MOZART ERA IL MIO PREFERITO
Presentazione di Stefania Ciacci
Edizioni Tabula fati
[ISBN-978-88-7475-189-1]
Pagg. 80 - € 6,00

Pagina sul sito dell'editore

venerdì 18 marzo 2011

Note sulla presentazione del 12 marzo

La presentazione del 12 marzo è stata molto emozionante e un grande successo.
Come dice Marco (ndr Solfanelli) il libro sfugge al controllo dello stesso autore.
Credo sia vero; ho ascoltato interpretazioni che non avevo immaginato, ho ricevuto energie, complimenti, critiche, suggerimenti, e mi è piaciuto.
Per cui tutti coloro che non sono potuti intervenire, tutti coloro che non hanno fatto domande, tutti coloro che vorranno sostenermi sono invitati al nuovo evento, che si terrà il 30 marzo alle ore 18 presso la sala della Figlia di Jorio, Palazzo della Provincia, Pescara.

Se dovete fare domande, mi raccomando, che siano facili, oppure datemi qualche suggerimento.

venerdì 11 marzo 2011

"Nessuno ricorda cos'era il sentimento dell'arte, tutti ormai sanno scrivere libri" di Marco Lodoli

Era inevitabile che tutto cambiasse anche nel mondo della letteratura, ma ugualmente non mi sono ancora abituato a come oggi vengono presentati scrittori e libri. Il marketing editoriale ha capito che è inutile mettere i libri sui banconi e aspettare che la gente, incuriosita da una recensione, attirata dal parere di un critico o di un amico fidato, si avvicini alla pila, sfogli un volume, leggiucchi qua e là e poi, forse, paghi due monete per entrare in quello spazio magico. La letteratura era un universo a parte: di qua c’era l’utilitarismo, il denaro, l’ingiustizia, la fama e il nulla, la vita così com’è; di là c’erano le parole degli scrittori, i versi dei poeti, acqua che cade lentamente da un cielo misterioso, che impregna piano piano il campo della sensibilità, che fa crescere roba buona per nutrirsi e fiori profumati.Chi scrive sapeva fin dalla prima riga di appartenere a un altro ordine, come lo sa un monaco, un militare, un adolescente, un ladro. Chi scrive si sentiva sbagliato, come si sente ogni persona sensibile, e cercava di porre rimedio, di inventare un luogo e un tempo dove tutto potesse tenersi insieme, dove ogni parola avesse un senso. Sapeva di dover passare ore, giorni, mesi, anni a mettere le frasi una dopo l’altra, come fa il carcerato con le lenzuola, le magliette, gli asciugamani sporchi, legando tutto a tutto per fuggire da quella reclusione, da quella pena. E lo stesso, credo, facevano i musicisti, i pittori, i teatranti: tutti a cercare un’altra vita, via da questa, via da tanta assurdità, via verso una terra promessa che non appare mai, ma che chiama.Ora non è più così, ora quasi nessuno più ricorda cos’era il sentimento dell’arte, di quanto sgomento e quanta speranza fosse fatto, di quanta debolezza e quanta temerarietà. Si partiva con niente, da niente, come fanno i bambini a tavola che costruiscono astronavi con gli stuzzicadenti per volare via dai discorsi inutili e cattivi dei grandi. Oggi tutto è cambiato. Lo scrittore oggi fa parte dello stesso preciso scatolone che contiene politici e calciatori, attori e giornalisti, belle ragazze e bravi intrattenitori, architetti e cantanti. Per tutti c’è un’intervista, buffa o intelligente, in cui dimostrarsi buffi o intelligenti, in cui gridare forte o piano, ma gridare io ci sono, eccomi qui sotto il faro, nel grande tendone, eccomi qui con la mia faccia in copertina, la mia foto sorridente o accigliata, eccomi con il mio nuovo libro.Nessuno vuole più un altro mondo, un’altra vita. Va benissimo quello che c’è: successo, premi, soldi, applausi, omaggi, baci e assegni. Va benissimo, i fari scaldano il narcisismo. Sul palco c’è il politico di grido, il comico che fa spanciare, l’attrice stupenda e quella impegnata, l’opinionista corretto e quello scorretto: non può mancare lo scrittore soddisfatto, mai imbarazzato, mai a disagio per quello che è. Le case editrici lo preparano, lo incoraggiano, gli aprono la strada con la pubblicità e via, giù nell’arena dei leoni di pezza.Lo scrittore è diventato pienamente cittadino dell’unico mondo possibile, questo dove conta solo chi vince, dove chi perde applaude, dove lo spettacolo non smette mai. Eppure io ricordo sempre con emozione quei versi bellissimi di Cristina Campo: “Due mondi/ e io vengo dall’altro”.22 novembre 2010


Sicuramente questo articolo, scovato su Tiscali opinioni, arricchisce e in me ha creato un grande dubbio.
E' talmente vero da sembrare scontato, ma è ossessivamente reale da sembrare costruito.
Credo di sapere a quale categoria appartengo, spero di conoscere le emozioni che mi suscita lo scrivere, mi illudo di conoscere le emozioni che vorrei suscitare in chi mi legge.