Vita e morte, amore e odio, finito ed infinito, esserci ed annullarsi, andare avanti ed a ritroso, ascoltare ed ascoltarsi..., sono questi, in massima parte, gli elementi fondanti della poesia di Ivan Burroni. Ma non solo, perché all’interno del quadro poetico, dalle tinte più o meno fosche, si nota un rincorrere angosciante, quella luce che appare e dispare, che tonifica l’animo e al tempo stesso lo distrae.
È evidente che Ivan Burroni guarda sì al dopo, ma lo fa dopo essersi tuffato nel presente, nell’averne succhiato la linfa, nell’essersi appropriato di ombre e di penombre, di giornate evanescenti e di movimenti circolari che non hanno portato esito alcuno, o frammentario, al suo tentativo di uscire dal tunnel del quotidiano.
Il suo non è un verso sonoro, musicale, ritmato; vi si riscontra egualmente un’armonia di fondo seppure marchiata di amaritudine, da quello spleen di ascendenza baudelairiana che non a caso fa da pendant ad ogni suo tentativo di volo.
È una poesia, pertanto, che va assaporata e gustata in completa libertà, senza cioè restringere la visuale sulla finitezza del discorso, bensì intersecando un discorso all’altro fino a costruire quel mosaico composito che va sotto il nome di Ascoltandomi, il titolo della silloge che Ivan Burroni ha inteso dare proprio per obbligare il lettore a seguire il suo andirivieni di emozioni con l’intenzione — nascosta fin che si vuole — di incanalarlo sulla sua direttrice emotiva.
Un tentativo, questo, che, a nostro avviso, è senz’altro riuscito e che, anzi, offre ulteriore spazio in direzione di un gioco lirico abbastanza insolito e proprio per questo motivo tutto da gustare.
Sarebbero sufficienti i titoli delle singole poesie per tracciare un volto di profonda malinconia, di rabbia a volte.
“Il divenire sfugge, / spaventa scalpitando”; “Cerco il fine originario, / non trovandolo mi arrendo: / provo a non sentire più nulla”: ecco alcuni versi che, congiunti ai singoli titoli delle poesie, attraversano lo spazio del finito e tracciano una scia di indubbia angoscia interiore.
A tratti, comunque, Ivan Burroni scalpita, solleva il capo, cerca di inseguire le stelle, di agguantare il sogno... e il verso, in questi casi, assume una veste più aerea, meno nullificata. Dal viluppo di elementi tra di loro contrastanti ed intersecanti (c’è sempre, in ogni caso, un più e un meno, un lato positivo ed uno negativo all’interno del tutto e del particolare poetico) prende corpo, e consistenza, una ragnatela di passaggi e di paesaggi fotografici di natura intima. In pratica, c’è un osservare attento e costante di sé e dell’altro, del concreto e dell’effimero, quasi un navigare a vista senza però tralasciare mai di osservare al di là del vuoto.
La morte, il suo volto, ha un ruolo non secondario nello svilupparsi del discorso di Ivan Burroni (“Morte, venefica maschera senza contorni”) e questo perché, vuole suggerirci, “anestetici, / parole, / sensazioni” non sono altro che “mille forme per eludere il tempo... / ma esso corrode / senza far rumore”...
Alla fine, comunque, non può fare a meno di dire: “La mia vita è densa di te amor mio, / illumini gli attimi ed i pensieri miei / e rischiari con la tua luce questi passi incerti”. E questo a voler chiudere un cerchio dì malinconia che la lontananza e la non presenza della persona amata riesce, purtroppo, a trasformare la luce in penombra e la penombra in buio.
Diceva Victor Hugo che “i poeti hanno dentro di sé un riflettore: l’osservazione; e un condensatore: la commozione”. Beh, Ivan Burroni ha dimostrato, in questa circostanza, di possedere entrambi e perciò di essere un poeta autentico.
Fulvio Castellani
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